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Gender diversity management: l'orientamento sessuale può essere fonte di discriminazione, anche sul lavoro

 

Ancora oggi l’orientamento sessuale può essere fonte di discriminazione, anche sul lavoro.

In questo focus proponiamo alcune indagini Istat-Unar che rivelano come per un omosessuale/bisessuale su cinque l’orientamento sessuale abbia influito negativamente su aspetti come retribuzione, avanzamenti di carriera e riconoscimento delle capacità professionali.

Le indagini sono state svolte nell'ambito del progetto di ricerca “Discriminazioni lavorative nei confronti delle persone LGBT+ e le diversity policies attuate presso le imprese”, finanziato nell'ambito del PON Inclusione FSE 2014-2020.

 

Secondo i dati dell’ “Indagine sulle discriminazioni lavorative nei confronti delle persone LGBT+ in unione civile o unite in passato” realizzata nel 2020-2021, il 26% delle persone che si dichiarano omosessuali o bisessuali afferma che il proprio orientamento sessuale ha rappresentato uno svantaggio nel corso della vita lavorativa in almeno uno dei tre ambiti considerati (retribuzione, avanzamenti di carriera, riconoscimento delle capacità professionali). Il 12,6% non si è presentato a un colloquio di lavoro o non ha fatto domanda poiché pensava che l’ambiente lavorativo sarebbe stato ostile al suo orientamento sessuale. Questi dati sono riferibili solamente a una piccola parte della popolazione LGBT+ (le persone in unione civile o già in unione), il segmento più propenso a vivere il proprio orientamento sessuale in una dimensione pubblica.

 

Nel 2019, il 5,1% delle imprese con almeno 50 dipendenti dell’Industria e dei Servizi ha adottato almeno una misura, non obbligatoria per legge, volta a favorire l’inclusione dei lavoratori LGBT+. La quota sale al 14,6% tra le imprese con almeno 500 dipendenti. Le misure più diffuse sono quelle destinate ai lavoratori transgender, in particolare la presenza di servizi igienici, spogliatoi, ecc. che consentano un utilizzo coerente con la propria identità di genere (3,3% delle imprese). Poco diffusi gli eventi formativi sui temi legati alle diversità LGBT+ rivolti al top management (1,3%) e ai lavoratori (1,2%). Solo il 2,9% delle imprese non ancora attive sul versante LGBT+ afferma di voler implementare tali misure o strumenti nei tre anni successivi al 2019.

 

Stakeholder e persone LGBT+ in unione civile o ex-unite, intervistate nell’ambito del progetto, ritengono fondamentale un cambiamento culturale. A tal fine sostengono siano necessarie attività di formazione sulle tematiche LGBT+ dedicate a differenti attori (datori di lavoro, operatori sanitari, insegnanti, dipendenti pubblici, ecc.), ma soprattutto iniziative più generali di educazione, informazione e sensibilizzazione da realizzarsi anche nelle scuole. Un ampio accordo viene espresso in favore di una legge nazionale contro l’omolesbobitransfobia, sui diritti per le famiglie LGBT+, tra cui il riconoscimento legale di entrambi i genitori per i figli di coppie omogenitoriali. Viene inoltre segnalata la carenza di leggi e iniziative a favore delle persone transgender, non binarie e intersessuali.

 

L’Indagine sulle discriminazioni lavorative nei confronti delle persone LGBT+ rivolta alle persone in unione civile o già in unione (vedi glossario), ha coinvolto oltre 21 mila individui in unione civile o già in unione residenti in Italia. Fra gli intervistati che vivono abitualmente in Italia il 95,2% dichiara un orientamento omosessuale o bisessuale: persone gay (65,2%), lesbiche (28,9%), bisessuali donne (4,2%), bisessuali uomini (1,7%). Per il restante 4,8%, lo 0,2% dichiara un orientamento asessuale, l’1,3% un altro orientamento, la quota rimanente preferisce non rispondere.

Si tratta di un target specifico di popolazione LGBT+ che presenta caratteristiche particolari e un grado elevato di apertura o visibilità rispetto al proprio orientamento sessuale. La quasi totalità è costituita da persone di cittadinanza italiana, in maggioranza uomini (66,9%), individui di età avanzata (il 43,6% ha 50 anni e oltre), con una concentrazione nel Nord del Paese (61,2%) e un livello di istruzione elevato (il 38,8% ha conseguito almeno la laurea). Tale popolazione mostra una buona partecipazione al mercato del lavoro (il 77% è occupato e il 22,5% lo è stato in passato); il lavoro dipendente è la modalità di impiego prevalente e il settore terziario quello più rappresentato, in particolare tra le donne.

Tuttavia, il 12,6% afferma di non essersi presentato a un colloquio di lavoro o non aver fatto domanda perché pensava che l’ambiente di lavoro sarebbe stato ostile al suo orientamento sessuale. Oltre un individuo su cinque (il 26%) tra le persone, in unione civile o già in unione, omosessuali o bisessuali, occupate o ex-occupate, ritiene che l’orientamento sessuale abbia costituito un elemento di svantaggio nel lavoro, soprattutto in termini di carriera, riconoscimento e apprezzamento delle proprie capacità, in maniera meno importante per quanto riguarda la retribuzione.

Tra i lavoratori dipendenti o ex-dipendenti tale svantaggio aumenta al crescere della dimensione organizzativa (persone occupate nell’azienda/ente) e nel settore privato, così come in presenza di strumenti di diversity management, laddove politiche di inclusione sembrano portare a una più diffusa cultura e consapevolezza tra i lavoratori su tali temi.

Nel complesso, l’attitudine a vivere in una dimensione pubblica il proprio orientamento sessuale in ambito lavorativo è elevata, tanto che la stragrande maggioranza dichiara che il proprio orientamento sessuale è o era noto, nell’attuale o ultima occupazione, almeno a una parte delle persone dell’ambiente lavorativo (92,5%), soprattutto ai pari grado (84,5%).

Circa una persona su tre riporta episodi di outing, ovvero di disvelamento non consensuale a terzi dell’orientamento sessuale, mentre il 40,3% ha evitato di parlare della sua vita privata per tenere nascosto il proprio orientamento sessuale.

Particolarmente diffuso è il fenomeno delle micro-aggressioni nell’attuale/ultimo lavoro legate all’orientamento sessuale, infatti, il 61,8% riporta di avere subito almeno un episodio di tale tipo da parte di persone dell’ambiente lavorativo, nell’attuale o ultima occupazione svolta. Le esperienze più frequenti riguardano l’uso di un linguaggio offensivo o dispregiativo, scherno, domande sulla vita sessuale, avance sessuali non gradite.

 

Diffuse le discriminazioni soprattutto tra i giovani

 

Una percentuale elevata (il 46,9%) delle persone in unione civile o già in unione, omosessuali o bisessuali, ha subito almeno un evento discriminatorio a scuola/università, non necessariamente in relazione al proprio orientamento sessuale.

Il fenomeno è più diffuso tra i giovani (il 61,6% dei 18-34enni), a conferma della delicata fase di formazione che precede l’inserimento nel mondo del lavoro e i possibili effetti che questa può avere sui successivi percorsi di studio e lavoro.

 

Per quanto riguarda la discriminazione in fase di accesso al lavoro, una persona su tre dichiara di aver vissuto tale esperienza; invece, con riferimento allo svolgimento del proprio lavoro, il 34,5% dei dipendenti o ex-dipendenti dichiara di aver subito almeno un evento di discriminazione.

Infine, il 20,8% degli occupati o ex-occupati riporta almeno uno degli episodi di clima ostile, incluse aggressioni in ambito lavorativo che vengono indicate dall’1,1% dei rispondenti. Si tratta sempre di esperienze ascrivibili a una pluralità di caratteristiche, tra cui l’orientamento sessuale. L’identità di genere viene riportata, tra i motivi per i quali si ritiene di essere stati discriminati, da una quota molto contenuta di questo segmento di popolazione.

Coloro che hanno subito discriminazioni o episodi di clima ostile in ambito lavorativo ne parlano, generalmente in maniera informale con altre persone, mentre è meno diffuso il reporting di tali eventi a organi e figure preposte.

Circa sei dei dipendenti o ex-dipendenti su 10 hanno parlato dell’ultimo evento di discriminazione accaduto con persone dell’ambiente lavorativo, più frequentemente con colleghi di pari grado (il 42,2%) e con datori di lavoro e superiori (il 24,4%), ma è soprattutto con familiari (60,8%) e amici (53,7%) che ci si confronta.

Il 10,5% ne ha parlato con le organizzazioni sindacali, il 6% con un avvocato/servizio di assistenza legale e l’1,4% con associazioni LGBT+. La quota di chi si è rivolto ad altri organi è residuale (0,7% al comitato di pari opportunità o consigliere di fiducia, 0,3% alla consigliera di parità, 0,2% alle forze dell’ordine). Una situazione simile si osserva per gli eventi di clima ostile. 

 

Grandi imprese più attive nel diversity management

 

In base ai dati del modulo ad hoc del 2019, tra le imprese con almeno 50 dipendenti dell’Industria e dei Servizi, la disabilità (15,9%) e il genere (12,7%) sono gli ambiti prevalenti, non obbligatori per legge, di applicazione del diversity management (DM); seguono le misure legate alle diversità per età (10,4%), cittadinanza, nazionalità e/o etnia (9,7%) e alle convinzioni religiose (9%). Le imprese di grandi dimensioni sono più attive; infatti, per tutti gli ambiti indicati la quota è più elevata, arrivando a riguardare, per le differenze di genere e disabilità, un’impresa su quattro fra quelle con almeno 500 dipendenti.

Considerando sempre le iniziative che vanno oltre gli obblighi di legge, nel 2019 solo il 5,1% delle imprese (pari a oltre 1.000 imprese) ha adottato almeno una misura per favorire l’inclusione LGBT+. La dimensione d’impresa si conferma un fattore discriminante per cui si passa dal 4,4% delle imprese di 50-499 dipendenti al 14,6% di quelle di dimensioni maggiori.

Nel complesso, solo il 3,5% delle imprese ha adottato misure non obbligatorie per legge per gestire e valorizzare le diversità tra i lavoratori legate a tutti i fattori considerati ossia il genere, l’età, la cittadinanza, la nazionalità e/o l’etnia, le convinzioni religiose, la disabilità, l’orientamento sessuale o identità di genere (il 10,9% delle imprese con almeno 500 dipendenti).  

Nel dettaglio, le misure maggiormente adottate, nel 2019, per la valorizzazione e gestione delle diversità LGBT+ sono quelle destinate ai lavoratori transgender. In particolare, la possibilità di usare servizi igienici, spogliatoi, ecc. in modo coerente con la propria identità di genere è attuata dal 3,3% delle imprese; seguono le iniziative che garantiscono ai lavoratori transgender il diritto di esprimere la loro identità di genere in maniera visibile (2%) e le misure ad hoc a tutela della privacy dei lavoratori transgender che hanno intrapreso il percorso di transizione prima di entrare nell’impresa (1,6%).

La realizzazione di iniziative di promozione della cultura d’inclusione e valorizzazione delle diversità LGBT+ rappresenta la seconda misura più frequente (2,1%). Ancora poco diffusi gli eventi formativi sui temi legati alle diversità LGBT+ rivolti al top management (1,3%) e ai lavoratori (1,2%) così come permessi, benefit e altre misure specifiche per i lavoratori LGBT+, adottati in maniera molto residuale. Per tutte le misure la diffusione è maggiore in imprese di più grandi dimensioni.

Al di là delle misure intraprese e delle iniziative adottate, gli strumenti di DM per le diversità LGBT+ sono ancora poco utilizzati dalle imprese: il 15,4% ha formalizzato in uno o più documenti interni l’adesione ai principi di non discriminazione e inclusione dei lavoratori LGBT+, con una percentuale che arriva al 34,1% per le imprese con 500 dipendenti e più. Nel 2,9% dei casi nelle imprese è presente un’unità organizzativa che si occupa anche delle diversità, incluse le diversità LGBT+ e solo l’1,9% delle imprese ha previsto una figura professionale che si occupa delle diversità, incluse le diversità LGBT+ (rispettivamente 13,3% e 10,6% tra le imprese più grandi).

Inoltre, il motivo maggiormente indicato dalle imprese a motivazione dell’adozione di misure e/o strumenti per le diversità LGBT+ non obbligatori per legge è quello di prevenire atti discriminatori all’interno dell’impresa (segnalato da circa metà delle imprese), seguito dalla volontà di favorire il benessere, la soddisfazione e la motivazione dei lavoratori.

Le imprese che non hanno mai adottato misure o strumenti per le diversità LGBT+, in quasi otto casi su 10 motivano tale scelta sulla base del fatto che “non ne è emersa la necessità”; seguono motivazioni del tipo: “le misure di legge già approvate sono sufficienti”, “l’ambiente di lavoro è già inclusivo”, “l’inclusione LGBT+ non richiede misure ulteriori rispetto a quelle destinate a tutti i lavoratori”. Solo il 2,9% pensa di implementare, nei prossimi tre anni, misure o strumenti di DM per le diversità LGBT+.

 

Imprese veicolo del cambiamento culturale, ma permane il ruolo cruciale delle istituzioni

 

Gli stakeholder intervistati sottolineano come le politiche di pari opportunità, inclusione e diversity management negli ambienti di lavoro siano azioni auspicabili quando non si risolvono esclusivamente con una formalizzazione di principi, ma riescono a favorire un cambiamento di tipo culturale; in tal modo si trasformano in pratiche e quindi concorrono alla costruzione di contesti di lavoro inclusivi, tali da facilitare ad esempio il coming out.

Le imprese possono essere veicolo di tale cambiamento culturale, ma per la maggior parte degli stakeholder intervistati il principale attore che deve favorire lo sviluppo di una cultura delle differenze è l’istituzione pubblica, lavorando in sinergia con altri attori (es. associazioni e network di lavoratori, sindacati), in primo luogo tramite la realizzazione di attività di formazione alle diversità.

Ciò trova riscontro nell’opinione espressa dalle persone omosessuali e bisessuali, in unione civile o già in unione intervistate. Una larga maggioranza ritiene infatti che per favorire l’inclusione delle persone LGBT+ nel mondo del lavoro in Italia siano urgenti attività di formazione, sensibilizzazione o campagne sulle diversità LGBT+ in ambiti lavorativi da parte delle istituzioni pubbliche (71,7%).

Nella graduatoria delle azioni auspicabili seguono interventi legislativi (52,6%) e azioni di indirizzo da parte dell’Unione europea o altri organismi sovranazionali (44,6%) e, con un notevole distacco, iniziative e interventi degli organismi di parità e tutela preposti (26,2%) e l’impegno sindacale (es. contrattazione, formazione delle rappresentanze sindacali, eventi e iniziative culturali) (22,2%). Meno dell’1% afferma che non è necessaria alcuna azione.

 

Stakeholder e persone LGBT+ in unione civile e ex-unite, intervistate nell’ambito del progetto, ritengono fondamentale adottare misure e azioni a carattere più generale che possano avere effetti su differenti contesti di vita, inclusa la sfera lavorativa. Attività di formazione alle tematiche LGBT+ devono essere dedicate a differenti attori (datori di lavoro, operatori sanitari, insegnanti, dipendenti pubblici, ecc.), ma soprattutto sono ritenute necessarie iniziative di educazione, informazione e sensibilizzazione alle tematiche LGBT+ a partire dalle scuole.

 

Ampio accordo è dato a favore di una legge nazionale contro l’omolesbobitransfobia, diritti per le famiglie LGBT+ tra cui il riconoscimento legale di entrambi i genitori per i figli di coppie omogenitoriali. Viene inoltre segnalata la carenza di leggi e iniziative a favore delle persone transgender, non binarie e intersessuali e l’importanza di una lettura intersezionale delle differenze.

 

È possibile consultare tali report per maggiori dettagli metodologici relativi alle indagini finora realizzate.

 

L’INDAGINE ISTAT-UNAR SULLE DISCRIMINAZIONI LAVORATIVE NEI CONFRONTI DELLE PERSONE LGBT+ (IN UNIONE CIVILE O GIÀ IN UNIONE) - ANNO 2020-2021

 

IL DIVERSITY MANAGEMENT PER LE DIVERSITÀ LGBT+ E LE AZIONI PER RENDERE GLI AMBIENTI DI LAVORO PIÙ INCLUSIVI - Anno 2019